Mi piace il Ruchè, mi piaceva prima che diventasse IL RUCHE’.
Intendiamoci bene: non sto dicendo che “si stava meglio quando si stava peggio”. I produttori di Ruchè che in questi anni hanno investito tempo e denaro sulla denominazione andrebbero nominati cavalieri del lavoro. Per citarne alcuni, attraversando le più diverse filosofie produttive senza l’ambizione di essere esaustivo: Luca Ferraris, Crivelli, Gatto, Goggiano, Cascina Tavjin, Montalbera, Cantine Sant’ Agata, la Cantina Sociale…
Il Ruchè ha alcune peculiarità agronomiche assolute che lo rendono unico. Elevata tolleranza ai freddi primaverili e una buona resistenza ai problemi della vite, compresa la flavescenza dorata. Matura tra fine settembre e inizio ottobre ma è capace di abbreviare i tempi se il clima freddo lo impone.
In più, il Ruchè ha un profumo unico, carico, caldo e speziato. Fortemente riconoscibile.
E’ un vero peccato che ancora poche persone ne conoscano le capacità espressive nell’ invecchiamento.
Oggi questa denominazione gode di una bella vitalità, a volte però mi capita di incontrarne versioni caricaturali, quasi grevi. Il troppo stroppia. Versioni muscolari, enfatizzate, troppo profumate, troppo cosmetiche e troppo appariscenti.
Questo Ruchè di Gianni Doglia merita un pensiero, un riconoscimento al senso della misura e dell’equilibrio. Il bicchiere racconta inconfondibilmente tutti i tratti di un vero Ruchè, con garbo ed eleganza…senza urlare. Bravi Gianni e Paola.
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